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Locazioni immobiliari – emergenza COVID19 – incidenza dei vari decreti di chiusura delle attività sui contratti in essere. Problematiche relative al pagamento dei canoni di locazione.

L’emergenza in atto e i conseguenti provvedimenti adottati dal Governo al fine di contrastare e contenere il diffondersi del virus Covid-19 (in particolare, il D.P.C.M. 11 marzo 2020 e, in modo ancor più incisivo, il D.P.C.M. 22 marzo 2020), incidono sui rapporti locatizi.

In particolare la chiusura degli esercizi commerciali e la sospensione delle attività produttive, ad eccezione di quelle espressamente previste dalla normativa (Cfr. D.P.C.M. 22 marzo 2020), hanno generato il dubbio sulla possibilità di chiedere con possibilità di successo, la sospensione o in subordine la riduzione dei canoni nei contratti di locazione di immobili ad uso commerciale non utilizzati (o, meglio, non pienamente goduti, in ragione dell’obbligo di chiusura).

In questo articolo si approfondirà la normativa applicabile alla fattispecie in esame e la conseguente tutela giuridica da invocare a favore del conduttore.

Assumendo che il conduttore in questa fase interlocutoria non abbia interesse a sciogliere il rapporto contrattuale e riconsegnare l’immobile al locatore, non saranno approfonditi, se non en passant, gli istituti giuridici della causa in concreto e della presupposizione che in pratica si declinerebbero nella risoluzione del contratto o nel recesso unilaterale della parte per la quale il vincolo contrattuale sia divenuto intollerabile e non più utile.

Il recesso per giusta causa

Nell’ipotesi in cui tuttavia si volesse o dovesse sciogliere il vincolo contrattuale, il conduttore potrebbe recedere dal contratto di locazione invocando i gravi motivi ai sensi dell’articolo 27 della Legge 392/1978, comunque dando al locatore il preavviso di sei mesi.

I gravi motivi che legittimano il recesso, da specificare nella comunicazione, devono essere estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili al momento della sottoscrizione del contratto di locazione e sopravvenuti e, in concreto, rendere estremamente gravosa la prosecuzione del rapporto. In sostanza, i gravi motivi devono avere carattere oggettivo. Sul punto, in materia di locazione non abitativa, esiste giurisprudenza anche recente che conforterebbe la possibilità di invocare i gravi motivi che legittimano il recesso anche nell’attuale situazione di emergenza sanitaria, tenuto conto dei provvedimenti di contenimento adottati e delle loro drammatiche conseguenze per molte attività commerciali (Corte di Cassazione, Terza Sezione, Sentenza n. 23639/2019 che ha considerato legittimo motivo di recesso la “gravità della crisi economica determinatasi in relazione alla collocazione geografica dell’attività commerciale svolta all’interno dell’immobile locato”).

Risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta

L’eccessiva onerosità sopravvenuta si realizza invece nel caso in cui un evento, straordinario e imprevedibile, estraneo alla normale alea del contratto, rende l’esecuzione della prestazione non impossibile, ma più onerosa rispetto a quanto prevedibile prima del verificarsi dell’evento stesso.

Per i contratti a prestazioni corrispettive, l’istituto in esame è disciplinato dall’articolo 1467 Codice Civile, che contempla la possibilità per la parte obbligata, per la quale l’adempimento diventi eccessivamente gravoso, di domandare la risoluzione del contratto. La controparte contrattuale può evitare la risoluzione proponendo di modificare le condizioni dell’accordo (intervenendo sulla propria prestazione o su quella di controparte), in modo da ristabilire l’equilibrio del rapporto. Di norma il locatore potrebbe proporre una riduzione del canone.

Il ricorrere della eccessiva onerosità sopravvenuta richiede la prova del fatto che l’evento sopravvenuto ha “determinato una sostanziale alterazione delle condizioni del negozio originariamente convenuto tra le parti e della riconducibilità di tale alterazione a circostanze assolutamente imprevedibili (Trib. Milano, Sezione Spec. Imprese, Sentenza 3 luglio 2014, n. 8878).

E’ pertanto necessario che sussista una eccessiva onerosità oggettiva della prestazione originariamente convenuta, non è invece sufficiente la mera difficoltà economica (soggettiva dunque) della parte tenuta all’adempimento.

Certamente potrebbe incidere oggettivamente sull’equilibrio sinallagmatico inizialmente convenuto la situazione di recessione economica generale causata dalla pandemia, i mancati introiti conseguenti alla chiusura delle attività, la difficoltà di ripresa anche dopo la riapertura stanti i necessari accorgimenti da attuare che renderanno più complicato anche in termini economici lo svolgimento delle attività produttive e commerciali.

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La questione principale

Passando alla questione principale oggetto di questa disamina, veniamo ad esaminare se il conduttore di un immobile ad uso commerciale sia legittimato nel ritardo nel pagamento dei canoni e/o se possa richiedere la riduzione del canone di locazione o se addirittura possa pretendere di non pagare i canoni relativamente al periodo di chiusura.

La tesi sostenuta da certa dottrina a fondamento della legittimazione a chiedere la riduzione del canone di locazione e/o la liberazione dal pagamento degli stessi, invoca l’art. 1463 C.C. che recita:“Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito” e/o l’art. 1464 C.C. rubricato “Impossibilità parziale” a mente del quale ” quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale”.

L’argomento della sopravvenuta impossibilità della prestazione e la normativa ad asso afferente, applicata alle obbligazioni del conduttore e del locatore, viene letta nel senso che la prestazione del locatore di mantenere la cosa locata all’uso convenuto (esercizio delle attività del conduttore) diventerebbe parzialmente impossibile in quanto pur rimanendo l’immobile nella disponibilità del conduttore, quest’ultimo non potrebbe servirsene.

Viene quindi ritenuto violato l’obbligo del locatore di consegnare e mantenere il bene in condizione da essere utilizzato secondo l’uso contrattualmente stabilito nonché di garantirne il pacifico godimento ai sensi dell’art. 1575 c.c..

Si evoca a tal fine Cas. civile sez. III, 29/03/2019, n. 8766 secondo cui “in tema di risoluzione del contratto, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione è configurabile qualora siano divenuti impossibili l’adempimento della prestazione da parte del debitore o l’utilizzazione della stessa ad opera della controparte, purché tale impossibilità non sia imputabile al creditore ed il suo interesse a ricevere la prestazione medesima sia venuto meno, dovendosi in tal caso prendere atto che non può più essere conseguita la finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto, con la conseguente estinzione dell’obbligazione.”

La Suprema Corte fa leva sulla valorizzazione, ai fini della qualificazione dell’impossibilità sopravvenuta, della causa del contratto, intesa (secondo un orientamento consolidatosi in tempi recenti) come “causa in concreto” ovvero lo scopo pratico del contratto costituente sintesi degli interessi che il negozio è concretamente diretto a realizzare.

Vedasi in particolare Cass. n. 16315/2007 in cui il Giudice di legittimità con riguardo al concetto di “causa in concreto” ritengono che tale elemento sia necessario per l’esistenza del contratto e tale da determinare “l’essenzialità delle attività strumentali alla realizzazione del preminente scopo del contratto”; la causa in concreto ha decisiva rilevanza anche in ordine alla sorte della vicenda contrattuale, in ragione di eventi sopravvenuti che si ripercuotono sullo svolgimento del rapporto. Qualora si verifichino fatti tali da incidere negativamente sull’interesse del creditore al punto da eliminarlo, a parere della Cassazione, si determina “l’estinzione del rapporto obbligatorio, in ragione del sopravvenuto difetto dell’elemento funzionale (art. 1174 c.c.).

Con particolare riferimento al contratto d’affitto d’azienda, c’è chi sostiene che l’interesse di fatto del creditore/affittuario sia evidentemente quello di poter svolgere l’attività per la quale ha stipulato il contratto d’affitto d’azienda. E l’impossibilità di svolgere tale attività, per fatti indipendenti ed estrinseci alle parti, comporta inevitabilmente l’estinzione della controprestazione del locatore in quanto detta obbligazione (cioè il mettere a disposizione l’azienda), anche se astrattamente ancora eseguibile, è del tutto inutilizzabile per il creditore affittuario che non ha più alcun interesse al riguardo. A ciò consegue che l’affittuario non potrà essere chiamato ad adempiere al suo obbligo di pagamento del canone stante la mancanza del necessario sinallagma. Da ciò deriva una legittima sospensione (intesta come estinzione della relativa obbligazione) del pagamento dei canoni di affitto per tutto il tempo in cui saranno in vigore le limitazioni di cui alla decretazione d’urgenza, oltre al diritto di reclamare il rimborso della parte di canone non goduto.

Differenza tra affitto di azienda e locazione di immobile

Senonchè la locazione dell’immobile ad uso commerciale si differenzia dall’affitto dell’azienda per il diverso oggetto del contratto: da una parte l’immobile dall’altra il complesso dei beni per il conseguimento del fine produttivo: “La differenza tra locazione di immobile con pertinenze e affitto d’azienda consiste nel fatto che nella prima ipotesi l’immobile concesso in godimento viene considerato specificamente, nell’economia del contratto, come l’oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente e assorbente rispetto agli altri elementi, i quali (siano essi legati materialmente o meno all’immobile) assumono carattere di accessorietà e rimangono collegati all’immobile funzionalmente, in posizione di subordinazione e coordinazione. Nell’affitto d’azienda, invece, l’immobile non viene considerato nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso di beni mobili e immobili, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo, sicché l’oggetto del contratto è costituito dall’anzidetto complesso unitario.” Cass. civ., Sez. III, 27 giugno 2002, n. 9354

Se quindi nei contratti di affitto di ramo d’azienda, provvedimenti che neghino la possibilità di svolgere tale attività aziendale incidono direttamente, rendendola di fatto impossibile, sulla prestazione principale dell’affittante, consistente nella messa a disposizione di un complesso di beni e rapporti giuridici organizzati per lo svolgimento di un’attività d’impresa e quindi fanno venir meno l’utilità funzionale che costituisce il cuore della prestazione contrattuale dell’affittante che diviene, per l’effetto, pacificamente impossibile, di contro, nella locazione commerciale, i divieti non incidono sulla prestazione e/o obbligazione principale del locatore che ai sensi dell’art. 1575 c.c. permane adempiuta, ovvero la messa a disposizione di locali genericamente idonei all’uso che ne è consentito ai sensi del contratto. Essi non hanno infatti alcuna attinenza all’immobile in cui si svolge l’attività, alle sue caratteristiche o alla sua idoneità all’uso pattuito o anche al pacifico godimento. Pare evidente che incidano, piuttosto, direttamente od indirettamente sull’attività stessa del conduttore in modo del tutto indipendente dalla prestazione del locatore e dall’immobile in cui si svolge l’attività.

Quindi se gli istituti relativi all’impossibilità sopravvenuta totale e/o parziale incidono nel caso della chiusure imposte dal governo direttamente sul contratto di affitto di azienda perché ne pregiudicano e/o impediscono il fine, gli stessi argomenti non potrebbero sostenersi per il contratto di locazione ad uso commerciale.

Occorre infatti considerare che l’immobile locato, sebbene non accessibile al pubblico, permane nell’esclusiva disponibilità del conduttore, che ivi custodisce beni e mezzi di produzione e che i divieti di esercizio delle attività produttive e commerciali imposti dai provvedimenti governativi non incidono in alcun modo sulla prestazione principale del locatore, che consiste nel mettere a disposizione del conduttore locali idonei all’esercizio dell’attività a fronte del pagamento dei canoni, che nel rapporto sinallagmatico locatore-conduttore, il conduttore non è comunque legittimato a ridurre o autosospendere.

Si veda, tra le altre, Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, Sentenza 27 settembre 2016, n. 18987 “nell’ordinamento, come definitivamente chiarito da tempo da questa corte, non è rinvenibile un potere di autotutela del credito da parte del conduttore che, a fronte dell’inadempimento del locatore, decida di non corrispondere i canoni dovuti. In altri termini, al conduttore non è consentito di astenersi dal versare il canone, ovvero di ridurlo unilateralmente, nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione nel godimento del bene, e ciò anche quando si assume che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore. La sospensione totale o parziale dell’adempimento dell’obbligazione del conduttore è, difatti, legittima soltanto qualora venga completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore, costituendo altrimenti un’alterazione del sinallagma contrattuale che determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti (cfr. anche Cass. sez. VI, 26/01/2015, n. 1317)

Del pari non è affatto scontato che, in termini di rigorosa causalità, la chiusura temporanea dell’attività (e a maggior ragione l’incidenza indiretta, per le attività non sospese, sulla sua redditività) renda radicalmente impossibile la prestazione principale del conduttore consistente nel pagamento del canone di locazione e delle spese accessorie. E’ bene infatti ricordare che non è impossibile la prestazione che possa essere adempiuta con la normale diligenza e che, in sede di giudizio, potrebbe non essere ritenuta giustificazione sufficiente la mancanza (o, peggio ancora, la mera riduzione) di ricavi limitata (come speriamo) a qualche settimana.

Poiché, nel caso della locazione, la prestazione del cui adempimento si discute è senz’altro quella di pagamento del canone, giova ricordare che la Corte di Cassazione ha più volte ribadito che l’obbligazione pecuniaria è sempre oggettivamente possibile, potendosi configurare solo una impotenza economica del singolo debitore: l’impossibilità dell’obbligazione di pagamento ha dunque, per la Cassazione, carattere soggettivo e non oggettivo (tra le tante, Corte di Cassazione, Sezione Seconda Civile, Sentenza 15 novembre 2013, n. 25777 “In materia di obbligazioni pecuniarie, l’impossibilità della prestazione deve consistere, ai fini dell’esonero da responsabilità del debitore, non in una mera difficoltà, ma in un impedimento obiettivo ed assoluto che non possa essere rimosso, non potendosi ravvisare nella mera impotenza economica derivante dall’inadempimento di un terzo nell’ambito di un diverso rapporto”).

Sotto altro profilo, e cioè nell’ottica del legislatore, il Decreto Cura Italia (decreto legge 18/2020), all’articolo 65, riconoscendo un credito d’imposta per l’anno 2020 pari al 60% del canone di locazione relativo al mese di marzo 2020 per l’affitto degli immobili rientranti nella categoria catastale C/1 (botteghe e negozi) – ma penalizzando di fatto le altre categorie di attività su cui gravano i costi della locazione – presuppone che non sia legislativamente previsto alcun diritto alla sospensione o riduzione del canone da parte del conduttore, che va quindi pagato.

Riflessi della situazione emergenziale sulle locazioni ad uso abitativo

Quanto sopra detto per la locazione di locali commerciali vale, a maggior ragione, per le locazioni di immobili a uso abitativo: la sospensione delle attività lavorative e didattiche incide in maniera ancor più indiretta sul godimento da parte del conduttore del bene immobile locato. Nemmeno in questo caso sussiste un inadempimento del locatore che giustificherebbe la sospensione del pagamento dei canoni di locazione.

In caso di allontanamento volontario del conduttore dall’immobile locato i provvedimenti restrittivi adottati per il contrasto e il contenimento dell’emergenza epidemiologica rilevano per un diverso aspetto: ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lett. b), del D.P.C.M. 22 marzo 2020 chi si è recato presso un’abitazione propria o di terzi in zone meno contagiate del Paese, dal 23 marzo 2020 è impossibilitato a far ritorno nell’immobile locato in città e zone con un più alto tasso di contagiati, se non per le specifiche le ragioni giustificative tassativamente individuate dal provvedimento stesso: comprovate esigenze di lavoro, assoluta urgenza e motivi di salute.

Anche in questo caso, pertanto, pur avendo a propria disposizione l’immobile dal punto di vista giuridico, il conduttore è fortemente limitato nel potere di goderne effettivamente. Nemmeno in questo caso la situazione dà luogo, dal punto di vista giuridico, a impossibilità sopravvenuta di pagare il canone di locazione né a eccessiva onerosità.

In mancanza di situazioni che rendano la prestazione impossibile, totalmente o parzialmente, il debitore è senz’altro tenuto all’esatto adempimento dell’obbligazione contrattuale (articolo 1218 Codice Civile), esponendosi, in caso contrario, alla legittima richiesta di risarcimento dei danni subiti dalla controparte (articolo 1223 Codice Civile).

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Il ritardo nel pagamento del canone di locazione in relazione all’art. 91 decreto legge 18/2020.

A seguito del provvedimento di chiusura delle attività commerciali di cui al Dpcm dell’11 marzo 2020, sembrerebbe applicabile la disposizione relativa alla cosiddetta impossibilità temporanea di adempiere alla propria obbligazione di cui all’art. 1256 cc. “l’obbligazione si estingue quando, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile” e, se l’impossibilità di eseguire la prestazione è solo temporanea, “il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento”.

Va considerato, infatti, che il temporaneo divieto di esercitare l’attività determina oggettivamente la mancanza degli incassi e quindi la temporanea impossibilità di adempiere alla propria obbligazione (pagamento del canone). Ciò per il tempo per il quale durerà l’emergenza sanitaria. Pertanto, in applicazione della disposizione, il conduttore non sarebbe responsabile del ritardo nell’adempimento.

Ad avvalorare questa impostazione va richiamata la disposizione in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali a causa del Covid-19, contenuta all’articolo 91 del già citato decreto legge, che sancisce il principio in forza del quale, per valutare se sussiste la responsabilità dell’obbligato in relazione all’inadempimento o al ritardo dell’inadempimento e al conseguente obbligo di risarcire il danno, deve essere considerato l’impatto sull’attività dell’obbligato stesso delle misure di contenimento.

Se ne deduce che il conduttore impossibilitato ad adempiere correttamente alle scadenze di pagamento dei canoni a causa dell’emergenza Covid–19, poichè direttamente interessato dai provvedimenti di chiusura della propria attività, può ritenersi giustificato, senza che ciò costituisca presupposto per la decadenza del contratto o l’applicazione di interessi moratori e quindi senza incorrere nelle conseguenze previste per il ritardo nell’adempimento dell’obbligazione.

Si tratta tuttavia di una posticipazione dell’obbligo e non di una sua estinzione. Dal momento in cui l’emergenza in atto e dunque impossibilità temporanea sarà cessata, il conduttore sarà tenuto al pagamento dei canoni precedenti non corrisposti.

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Conclusioni

A conclusione di questo excursus, una chiosa di buon senso sembra tuttavia potersi enunciare, richiamando l’art. 2 della Costituzione, che pone a carico dei consociati un generale obbligo di solidarietà, anche “economica”, e, con esso, le norme del codice civile, che nell’obbligare le parti a comportarsi con correttezza (art. 1175) e buona fede, anche nella fase esecutiva del contratto (art. 1375), impongono alle stesse di calibrare le rispettive aspettative e pretese contestualizzandole, in particolare, nell’inedito scenario che stiamo vivendo in questi giorni.

Ove si consideri, che il contratto di locazione ad uso commerciale si configura quale contratto di durata, appare plausibile e ragionevole ritenere che il normale rapporto debba entrare in quiescenza, fintando che permarranno condizioni di difficoltà generali e quindi nell’impossibilità che esplichi la propria normale funzione economico-sociale, per riprendere a “funzionare” regolarmente non appena si saranno ristabilite le condizioni di normalità sociale ed economica.

Una logica costituzionalmente orientata e ispirata e alla solidarietà, all’equità, alla buona fede dunque, dovrebbe indurre a ritenere corretta una condivisione tra le parti del costo del danno conseguente alla chiusura e al successivo lento periodo di ripresa a pieno regime delle attività.

Le parti si troverebbero a condividere nella misura e nella proporzione che stabiliranno a seguito di accordi, gli effetti di una situazione che non è imputabile a nessuna di esse, in un contesto nel quale, così facendo, ciascuna massimizzerebbe l’utilità (o la riduzione del danno) rispetto all’alternativa della risoluzione del rapporto.

Il locatore deve considerare che, qualora il rapporto dovesse venir meno, in pendenza della situazione emergenziale, si troverebbe nella situazione di disporre di un bene inidoneo a produrre utilità e comunque di difficile ricollocazione.

Da parte del conduttore, questa soluzione avrebbe il pregio di contingentare ragionevolmente la perdita derivante dall’obbligo di versare il corrispettivo contrattuale, pur mantenendo in vita il rapporto che egli ha interesse possa proseguire fino alla naturale scadenza, fermo restando che, se la situazione dovesse protrarsi oltre le attuali aspettative e lo stato di fatto non dovesse mutare, a fronte di prospettive di crisi irreversibile, potrebbe profilarsi l’ipotesi di esercitare un legittimo recesso determinato dall’impossibilità sopravvenuta della prestazione.

In fine, sarebbe auspicabile un intervento del legislatore per stabilire normativamente, se e quali debbano essere i parametri di riduzione dei canoni di locazione commerciale, durante l’epidemia, altro non fosse per evitare il contenzioso che, in difetto, molto probabilmente si andrà ad ingenerare.

Altrettanto auspicabile, poi, sarebbe un ulteriore intervento che incentivi gli accordi bonari, semplificandone ed incoraggiandone l’adozione, anche sotto il profilo fiscale e degli adempimenti connessi.

 

Prelazione agraria e azione di riscatto (Parte II)

prelazione agraria

Può il coltivatore diretto riscattare due fondi venduti anche se la coltivazione era praticata solo su uno di essi?

 – Il procedimento di secondo grado –

A seguito delle sentenza di primo grado menzionata nel precedente articolo >>, veniva proposto appello dagli acquirenti del fondo; appello fondato principalmente sulla non riscattabilità di un fondo mai coltivato e per il quale non esisteva prova della detenzione qualificata.

Rilevava questo patrocinio che l’atto di compravendita non riguardava un unico fondo, come ritenuto dalla difesa del coltivatore e dal Giudice territoriale, quanto piuttosto di due terreni autonomi perchè divisi dalla strada provinciale e pertanto catastalmente individuati in differenti particelle non confinanti tra loro: a monte della provinciale vi è il terreno con estensione di circa cinque ettari sul quale l’attore provvedeva alla coltivazione, mentre a valle della menzionata strada si estendeva per circa un ettaro un diverso terreno (contrassegnato da altre particelle) mai coltivato prima della vendita e fino al termine della causa di primo grado, dell’aspetto prevalentemente.

Pertanto i due terreni, pur facenti capo ad un’unica proprietà e venduti con un unico atto dovevano comunque essere considerati in modo separato in quanto non solo distinti ed autonomi, ma tra loro neppure confinanti.

Quello che era sfuggito all’attore pensando ad un unico atto di vendita lo chiarisce la Corte di Cassazione a Sezione Unite con sentenza 2582/88 secondo cui sono terreni confinanti solo quelli per i quali sussiste relazione di contiguità materiale, mentre sono fondi non confinanti, quindi separati, quelli divisi da una strada vicinale, da una strada comunale e/o da una strada provinciale.

Conseguentemente l’attore poteva riscattare solamente concessogli affitto per il quale vi era la prova di una pregressa coltivazione almeno biennale, mentre non poteva riscattare cumulativamente entrambi.

Infatti seconda la pacifica giurisprudenza di cassazione ove il fondo costituente oggetto dell’affitto a coltivatore venga alienato unitamente ad altri beni, il diritto di prelazione ed il succedaneo diritto di riscatto spettano all’affittuario con riferimento al solo terreno concessogli in affitto (Cass n. 1862/74; 2916/75; 3384/80; 2649/86; 5361/87; 1481/88).

L’eccezione, poi convertita in motivo di appello non era di poco conto, perché la sua logica conseguenza conduceva al rigetto della domanda. Infatti siccome non era stato fissato dalle parti un prezzo distinto per ciascun fondo all’atto della compravendita, bensì un prezzo unico per tutte le particelle compravendute, controparte avrebbe dovuto avanzare almeno una domanda in cui coniugare il mero accertamento del valore del solo fondo lavorato con la richiesta di riscatto limitatamente a suddetto fondo.

Ciò non avveniva nemmeno come domanda subordinata.

A tal proposito la Suprema Corte ritiene pacificamente che una volta proposto l’atto introduttivo del giudizio, il diritto di riscatto non può essere più soggetto a variazione di sorta; in definitiva la richiesta di riscatto, una volta effettuata non è suscettibile di mutamenti (per tutte Cass. 5361/87).

Per tali motivi conseguiva secondo questa difesa l’impossibile accoglimento della domanda del retraente che senza distinzione alcuna tra fondo lavorato e quello mai detenuto aveva chiesto il riscatto di entrambi.

La corte di appello di Ancona con sentenza n. 523/2103 coglieva sia l’incongruenza nella difesa del coltivatore rigettando la tesi secondo la quale egli avrebbe detenuto anche il fondo a valle della provinciale destinandolo a bosco e/o pascolo sia l’efficacia dirompente del motivo di appello sollevato da questo patrocinio relativo al prezzo offerto per il riscatto del terreno compravenduto.

In definitiva la sentenza accoglie due importanti principi giurisprudenziali:

Innanzi tutto la prelazione sui terreni boscosi ricorre solo nell’ambito di una azienda agraria destinata a l’esercizio di colture forestali (Cc 4850/91). Non ricorreva evidentemente nel caso di specie poiché il coltivatore esercitava coltivazioni di fondi agricoli.

Inoltre in materia di contratti agrari, una volta esercitato con l’atto introduttivo del giudizio, il diritto di riscatto ex art. 8 L. 590/65 questo non è più suscettibile, in prosieguo di variazioni di sorta, né con riguardo all’estensione del terreno, né con riferimento al prezzo offerto, essendo preclusa alla parte non soltanto una vera e propria “mutatio libelli” ma anche una mera “emendatio” poiché le nozioni di “mutatio” ed “emendatio libelli” proprie del processo non sono trasferibili alle dichiarazioni negoziali. Siffatta possibilità è a fortiori preclusa, stante il principio posto dall’art. 112 c.p.c. al giudice, a meno che dall’interpretazione della domanda non emerga che quando ha non solo ad oggetto il riscatto di una determinata e puntualmente descritta porzione di terreno, ma contiene anche una pretesa subordinata, relativa ai soli fondi che in sede di giudizio dovessero essere accertati e ritenuti come effettivamente condotti in affitto dal retraente. (Cass 1103/2004)

Nel caso di specie il coltivatore non aveva manifestato l’intenzione di escludere dalla domanda iniziale le particelle del fondo rispetto alle quali non sussistevano le condizione per l’esercizio del relativo diritto….

Per questi motivi l’appello veniva pienamente accolto con la condanna del coltivatore alla rifusione delle spese di lite dei due gradi di giudizio e l’implicita condanna alla restituzione delle spese legali corrisposte per la vittoria del primo grado di giudizio.

Prelazione agraria e azione di riscatto (Parte I)

prelazione agraria

Può il coltivatore diretto riscattare due fondi venduti anche se la coltivazione era praticata solo su uno di essi?

 

Nel presente e nel prossimo articolo di questa rubrica illustreremo la questione giuridica che ha investito i ns. assistiti (i sig.ri B.) i quali, acquistando un terreno agricolo, hanno dovuto resistere giudizialmente in una causa di riscatto agrario azionata da un coltivatore diretto, sedicente affittuario del fondo.

La vicenda legale, sorta nel lontano 2001 e conclusasi recentemente con una sentenza della Corte di Appello di Ancona, interessa e chiarisce i limiti della prelazione agraria in caso di alienazione di più terreni.

– L’istituto della prelazione agraria –

L’istituto della prelazione agraria è attualmente regolato dalla L.590/65 e dalla L.817/71 e prevede che chiunque voglia alienare il proprio fondo deve preventivamente farne offerta al coltivatore diretto (o società agricola in cui almeno la metà dei soci è coltivatore diretto) che conduce in affitto, da almeno due anni, il terreno offerto in vendita (art. 8 della legge 590/1965), diversamente se il terreno non è affittato, il diritto di prelazione spetta al coltivatore diretto (o società agricola) proprietario di terreni confinanti (art. 7 della legge 817/1971). L’alienante del fondo quindi, per consentire l’esercizio della prelazione, è tenuto a notificare la proposta di vendita con lettera raccomandata (c.d. denuntiatio), all’affittuario o ai confinanti, allegando il contratto preliminare di compravendita contenente il nome dell’acquirente, il prezzo e le altre condizioni stabilite per la cessione. Il destinatario della notifica ha trenta giorni di tempo per esercitare il diritto di prelazione. Se comunica la sua intenzione di esercitare il diritto, il contratto si intende concluso e il prezzo deve essere pagato entro tre mesi. Quando il terreno viene venduto senza la notificazione al titolare del diritto di prelazione, oppure quando il prezzo indicato nella notificazione è superiore a quello risultante nel contratto di compravendita, l’avente diritto alla prelazione può esercitare l’azione di riscatto sul terreno entro un anno dalla trascrizione della vendita nei registri immobiliari a pena di decadenza.

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– Il procedimento di primo grado –

Per meglio comprendere la questione giuridica sottesa al caso di specie, si rende necessario esporre brevemente i fatti di causa. La sig.ra S. era proprietaria di un terreno agricolo attraversato da una strada provinciale. Nell’ottobre del 2000 la sig.ra S. vendeva il terreno ai sig.ri B. (nostri assistiti) dopo aver dichiarato loro che non esisteva materialmente alcun contratto di affitto con il coltivatore diretto anche se allo stesso coltivatore era stato concesso di poter praticare le sue colture sul terreno al fine di tenerlo pulito. Senonchè nel marzo del 2001 i nuovi acquirenti venivano citati in giudizio dal sig. M. il quale affermava di coltivare dal 1995 come affittuario il fondo rustico alienato che deteneva regolarmente a fronte del pagamento di canoni di locazione. Dichiarava altresì di trovarsi nelle condizioni previste dal comma 1 art. 8 L. 590/65 secondo cui “In caso di trasferimento a titolo oneroso o di concessione in enfiteusi di fondi concessi in affitto a coltivatori diretti, a mezzadria, a colonia parziaria, o a compartecipazione, esclusa quella stagionale, l’affittuario, il mezzadro, il colono o il compartecipante, a parità di condizioni ha diritto di prelazione purché coltivi il fondo stesso da almeno due anni, non abbia venduto, nel biennio precedente, altri fondi rustici di imponibile fondiario superiore a lire mille, salvo il caso di cessione a scopo di ricomposizione fondiaria, ed il fondo per il quale intende esercitare la prelazione in aggiunta ad altri eventualmente posseduti in proprietà od enfiteusi non superi il triplo della superficie corrispondente alla capacità lavorativa della sua famiglia.”

Alla luce di ciò il sig. M. , rilevata l’avvenuta alienazione del fondo da parte della proprietaria, contestava l’omessa notifica nei suoi confronti della c.d. denuntiatio e per tali motivi esercitava l’azione di riscatto agrario nei confronti degli acquirenti, offrendo in pagamento la stessa cifra risultante dal preliminare di vendita. Così convenuti in giudizio gli acquirenti preliminarmente chiedevano di chiamare in causa la venditrice, tenuta alla garanzia per l’evizione quindi sollevavano diverse eccezioni legate alle pretese avanzate dall’attore tra le quali: 1) l’inesistenza e/o la non sussistenza del contratto di affitto e qualificazione del rapporto come contratto d’opera o comodato; 2) la decadenza del diritto di prelazione e quindi del diritto di riscatto 3) l’insufficiente capacità lavorativa attuale e futura in capo al retraente ultra – settantenne; 4) esistenza particelle non riscattabili in quanto mai coltivate e costituenti un fondo autonomo e distinto da quello coltivato.

Nel corso dell’istruttoria si appalesava in effetti l’esistenza di un contratto di affitto contratto oralmente – inizialmente negato dalla proprietaria – per il quale il coltivatore versava canoni di locazione mensili. L’istruzione probatoria (prove orali e foto dei luoghi) evidenziava altresì che il terreno a valle della provinciale non era mai stato detenuto né coltivato, diversamente da quanto riferiva l’attore servendosi anche delle domande AIMA per i contributi sulle coltivazioni effettuate, che contrastava però con l’evidenza empirica. Fu per questo motivo che l’attore nelle fasi conclusive del giudizio (comparsa conclusionale), mutava i fatti a fondamento della domanda di riscatto sostenendo di aver lasciato il fondo a valle della provinciale alla destinazione pascolo-boschiva invece che di averlo coltivato (a grano e foraggio) come inizialmente sostenuto.

Nonostante la palese incongruenza nella prova dei fatti posti a fondamento della domanda di riscatto, nel procedimento di primo grado svoltosi dinnanzi al Tribunale di Fermo, sezione distaccata di Sant’Elpidio a Mare, il Giudice di prime cure con sentenza 99 del 08.10.2003 accoglieva la domanda di riscatto agrario per l’effetto riconosceva e dichiarava la qualifica di legittimo proprietario del fondo in capo al coltivatore diretto, condannando i fratelli B. a rifondere le spese di lite, rigettando per giunta la domanda di risarcimento danni per evizione spiegata nei confronti della terza proprietaria alienante. Va evidenziato anche che nel febbraio del 2003, prima della pronuncia di primo grado, il coltivatore si impossessava del terreno a valle, detenuto formalmente dai legittimi proprietari, ripulendolo dai rovi, arbusti e piante, quindi cominciando a seminarlo e ad ararlo. Il fatto fu denunciato dai proprietari alla polizia municipale competente.

 

Nel prossimo articolo tratteremo dell’appello opposto alla sentenza di primo grado e del suo esito…

 

 

La violazione dei termini di notifica del ricorso: l’improcedibilità nel rito del lavoro

Quello della «durata ragionevole del processo» è uno dei più rilevanti principi processuali presenti nella nostra Carta costituzionale. Tale principio ha trovato una prima affermazione nell’ordinamento italiano con la ratifica della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali(Legge 4 agosto 1955 n. 848), che lo consacra nell’art. 6, § 1 («ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti»), ma è assurto ad esplicita affermazione in Costituzione con la Legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 2, che lo ha espressamente inserito nell’art. 111. Conseguenza concreta della modifica dell’art.111 è sicuramente quella attinente all’improcedibilità nel rito del lavoro a seguito della sentenza di Cass Sez Un. 20604/2008.

Esempio pratico di questo mutato orientamento, è il caso che ci si è venuto a presentare e che andremo di seguito ad esporre.

A seguito di un ricorso per decreto ingiuntivo in materia locatizia da noi presentato per mancato pagamento di canoni di locazione, l’intimato si opponeva con ricorso depositato nei termini di legge, ma notificava il ricorso ed il pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di discussione oltre il termine termine perentorio di cui all’art. 415 co. V cpc portando alla notifica gli atti entro 30 gg dal giorno dell’udienza di discussione.

Ai sensi della nuova giurisprudenza di legittimità e di merito (a partire da Cass. SS UU 20604/2008) costituzionalmente orientata alla nuova formulazione dell’art. 111 co II cost. relativa alla giusta durata del processo, qualora la notifica del ricorso e del decreto di fissazione (nel rito del lavoro) non venga effettuato entro il termine di cui al terzo comma dell’art. 435 cpc per il ricorso in appello o entro il termine di cui al co. V dell’art. 415 cpc per il ricorso nel giudizio di primo grado esso diviene improcedibile (Corte costituzionale Ord. 60/2010).

Esiste tuttavia una giurisprudenza di merito più severa che ritiene, sulla scorta dell’interpretazione di un obiter dictum della sentenza di Cass Sez Un. 20604/2008 che qualora la notifica avvenga dopo il termine di 10 gg. di cui all’art. 435 co. II Cpc o all’art. 415 co. IV cpc, in difetto di proroga accordata dal giudice prima della scadenza, devono determinarsi conseguenze analoghe a quelle ricollegabili alla violazione del termine perentorio ovverosia l’improcedibilità del ricorso. (App. Roma Sent. 4668/2010, 2491/2010 e 2543/2010).

Nel caso si tratti di opposizione a decreto ingiuntivo o di impugnazione di una sentenza nel rito del lavoro o locatizio, la violazione dei termini in esame comporterebbe l’impossibilità di riproporre il ricorso per scadenza dei termini con conseguente esecutorietà della sentenza impugnata o del decreto ingiuntivo opposto.

Nel caso che ci occupa, questa difesa aveva azionato un decreto ingiuntivo nei confronti del locatario (Vodafone) il quale si opponeva nelle forme del rito locatizio (cioè lo stesso del rito del lavoro) notificando però il ricorso in violazione dei termini di cui all’art. 415 co IV e V cpc

Il Tribunale di Fermo con ordinanza 13.05.2013 sul procedimento 244/13 Rg dichiarava l’improcedibilità del ricorso per inosservanza dei termini perentori di cui all’art. 415 co. V cpc con l’implicita conferma del decreto ingiuntivo opposto, sulla scorta della recente giurisprudenza costituzionalmente orientata al nuovo principio della ragionevole durata del processo.

La precedente giurisprudenza – ancora non intrisa dell’esigenza costituzionale di velocizzare la durata del processo – invece si limitava a dichiarare nulla la notifica ed ordinare la rinnovazione della stessa rinviando all’uopo la prima udienza.

In sintesi viene mutato l’orientamento secondo cui il tempestivo deposito del ricorso sia idoneo da solo a perfezionare l’opposizione non incidendo il ritardo della notifica la quale poteva essere sanata con lo spostamento di udienza e l’assegnazione dei termini per una nuova notifica.

Ora invece anche il Tribunale fermano ha recepito l’evoluzione della giurisprudenza nel rito del lavoro per cui oltre ad una valida edictio actionis è necessaria altresì una valida vocatio in ius quale condizione indispensabile per la stabilizzazione degli effetti prodromici e preliminari prodotti dal regolare deposito del ricorso.

La Legge Pinto e la riparazione del danno per irragionevole durata del processo (II parte)

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Continuiamo la serie di interventi dedicati alla Legge Pinto relativa al diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo. In questo secondo articolo andiamo ad analizzarne la riforma attuata con il Governo Monti.


La riforma della Legge Pinto è avvenuta con il Decreto legge n. 83 del 22 giugno 2012 convertito in L. n. 134/2012.

Positiva la parte di semplificazione procedimentale: decide infatti, con decreto inaudita altera parte da emettere entro 30 gg dalla proposizione del ricorso, un giudice monocratico di Corte d’Appello su una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento. Apprezzabile è anche la codificazione dei parametri già stabiliti dalla giurisprudenza sia sul quantum risarcitorio che sui tempi di durata ragionevole del giudizio: il giudice liquiderà infatti una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. Criticabile è invece la norma che limita l’indennizzo che non potrà mai essere superiore al valore della causa. Altrettanto criticabile è aver stabilito che il danno sarà considerato integrato ed esistente solo se risultino superati i sei anni di durata del giudizio (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità), quando precedentemente era sufficiente aver superato i soli 3 anni nel primo grado.

Nel ribadire poi il termine decadenziale della domanda, secondo cui il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, è discutibile la limitazione che vieta di invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio come era stato finora possibile.

Le altre modifiche normative  dilatano la discrezionalità decisoria del Giudicerispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti, nell’accertare l’entità della violazione valuta: la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia: in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria; nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa; nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa; nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso; e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento.

Criticabile è la previsione del comma 5 quater, laddove si minaccia che,qualorala domanda sia ritenuta dal giudicante inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato alpagamento di una somma non inferiore a 1.000 euro e non superiore a 10. 000 euro in favore della Cassa delle Ammende! (Trattasi di un grande disincentivo, essendo ormai risaputa la vasta discrezionalità interpretativa dei giudici).

Non solo! Altro aspetto degno rilievo (che stravolge l’iniziale giusta logica della gratuità dell’azione) è la modifica dell’art. 3, comma 3 della legge ai cui sensi “unitamente al ricorso deve essere depositata copia autentica dei seguenti atti:a) l’atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata;b) i verbali di causa e i provvedimenti del giudice;c) il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili.”
Considerando che prima della modifica era possibile produrre copia semplice degli atti e/o chiedere l’acquisizione del fasciolo di causa, si può capire come la copia autentica costituisca un peso ulteriore che dovrà sopportare il ricorrente già danneggiato dallo Stato.

Un comune cittadino può legittimamente pensare che il legislatore prima di varare una riforma si preoccupi della compatibilità della stessa con le norme di rango superiore e pensa anche che se la legge persegue una finalità la stessa legge non può frapporre ostacoli al conseguimento dei suoi scopi.

Purtroppo questo cittadino o non è italiano oppure assomiglia al Pangloss “singolare” precettore del Candido di Voltaire secondo cui tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili!

In realtà il fine non troppo recondito perseguito dal legislatore italino è quello di ostacolare (per il tempo occorrente alla dichiarazione di incostituzionalità della norma) l’esercizio del diritto riconosciuto per la risaputa ragione che lo Stato non è in grado né di far fronte ai pagamenti degli indennizzi né di evadere la gran mole dei ricorsi che per suoi inadempimenti si riversano nelle Corti di Appello competenti.

Vediamo ora se le modifiche alla legge Pinto possano essere considerate compatibili e in che misura, con il sistema adottatto dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, così come ricostruito dai giudici della CEDU, al cui rispetto l’Italia è tenuta.

Come abbiamo rilevato l’obiettivo perseguito con la modifica è lo snellimento del ricorso e delle procedure. E pare che almeno su questo punto il legislatore abbia centrato il suo scopo. Peccato che il ricorrente ora debba sopportare il costo delle copie autentiche degli atti quando nel sistema previgente questa spesa non era prevista.

Considerazioni critiche

Relativamente al quantum dell’indennizzo che non può superare il valore della causa o del diritto in concreto accertato dal giudice nel procedimento in cui è violata la ragionevole durata (art. 2 bis co. III) è bene chiarire che si tratta di un limite non previsto né dalla Convenzione né dalla giurisprudenza CEDU.

Altro punto critico attiene alla previsione contenuta nell’art. 2 comma 2 ter, secondo cui l’indennizzo può essere richiesto solo se il procedimento non si è concluso nell’arco di 6 anni. A tal proposito la giurisprudenza CEDU ha ripetutamente stabilito che anche i procedimenti di durata inferiore ai sei anni possono legittimare l’ottenimento dell’indennizzo (Pelosi / Italia n. 51165/99; Di Meo – Masotta / Italia n. 52813/1999; Nuvoli / Italia n. 41424/1998).

Altro punto critico è quello relativo all’art. 4 della novella in forza del quale la parte ricorrente è obbligata ad attendere la conclusione definitiva del giudizio prima di adire lo strumento previsto dalla legge Pinto. Anche questa limitazione è decisamente contraria alla giurisprudenza CEDU che ha più volte stabilito (per tutti LEsjak / Slovenia n. 33946/03) che si può richiedere l’indennizzo prima della conclusione definitiva del giudizio quando questo eccede la ragionevole durata.

Viene inoltre confermata la precedente previsione della legge in forza della quale il giudice liquiderà l’indennizzo solo in relazione al periodo di tempo eccedente la durata ragionevole (art. 2 bis comma 1). Però anche tale previsione contrasta con la giurisprudenza CEDU che ha più volte ribadito che, ecceduti i termini della ragionevole durata, il procedimento nel suo complesso risulta essere in violazione della convenzione europea (ex plurimis Apicella / Italia n. 64890/01; Cocchiarella / Italia n. 64886/01).

Appare criticabile la nuova previsione in forza della quale l’indennizzo è escluso se una parte abbia rifiutato la proposta di definizione effettuata dal giudice. Si tratta infatti di altro limite non previsto nella convenzione e nella giurisprudenza CEDU.

Le nuove previsioni di cui all’art. 2 co. 2 sembrano attribuire al giudice notevoli margini di discrezionalità (oltre a notevoli già connaturati) nella valutazione delle circostanze del caso e in relazione al comportamento delle parti. Tuttavia tali previsioni, insieme alla tipizzazione delle preclusioni (art 2 quinquies), sollevano dubbi di coerenza con il sistema della convenzione perché l’obbligo di assicurare la ragionevole durata del procedimento grava sugli organi dello Stato che dovrebbero garantire un processo in tempi ragionevoli anche quando le Parti avessero assunto comportamenti dilatori.

Infine la previsione naturale per cui l’indennizzo viene pagato nei limiti delle risorse disponibili non è coerente con il sistema della convenzione europea, perché lo stato dovrebbe preoccuparsi di realizzare un sistema di finanziamento adeguato per far fronte ai propri obblighi (sentenza Simaldone / Italia n. 22644/2003; Gaglione / Italia n. 45867/07)

Perplessità desta la previsione di cui al nuovo art. 5 quater che facoltizza il giudice se accerta che la domanda di indennizzo è inammissibile o manifestamente infondata di condannare il ricorrente al pagamento di una salata ammenda da 1.000 a 10.000 euro, svolgendo questa una funzione dissuasiva per la presentazione del ricorso .

 

 

La Legge Pinto e la riparazione del danno per irragionevole durata del processo (I parte)

Legge Pinto

Con l’articolo di oggi, iniziamo una serie di interventi dedicati a quella che comunemente viene definita Legge Pinto (dal nome del suo estensore, Michele Pinto o legge 24 marzo 2001, n. 89). Tale legge disciplina il diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo. In questo primo articolo ne esamineremo la nascita e la sua evoluzione con il decreto Legge n. 201 del 2002. Negli interventi delle prossime settimane andremo poi ad analizzarne la riforma attuata con il Governo Monti e l’attuale situazione.


La cosiddetta Legge Pinto  nasceva con l’intento di salvaguardare l’Italia dalle condanne della Corte di Strasburgo a fronte dei ripetuti ritardi nella definizione dei procedimenti giudiziari ed anche per evitare l’intasamento della Corte medesima per i tantissimi ricorsi provenienti dall’Italia.
Veniva così “nazionalizzato” il diritto all’equa riparazione per la durata irragionevole del processo, rendendo effettivo a livello interno il principio della “durata ragionevole” introdotto dalla Costituzione italiana a seguito della riforma  dell’art. 111 ispirato all’art . 6, paragrafo 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo  e delle libertà fondamentali che riconosce il diritto di ogni persona a che la causa, di cui è parte, sia esaminata e decisa entro un lasso di tempo ragionevole e dell’art. 13 che afferma invece il diritto dei cittadini ad un ricorso effettivo contro ogni possibile violazione della Convenzione.
Concretamente la legge disciplina il caso di chi in un procedimento civile, penale o amministrativo, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della convenzione suddetta, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata.
Ligio alle direttive e dotato di buone intenzioni il legislatore italiano approntava una disciplina semplice e (fatto raro) di facile applicazione.
Senza pagare nulla in termini di costi di accesso alla giustizia (bolli, notifiche, contributi unificati, tassazione degli atti, copie ecc.) seguendo un procedimento snello e semplice, si poteva proporre un ricorso alla Corte di Appello competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p., durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assumeva verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che concludeva il medesimo procedimento, era divenuta definitiva.
Il danno liquidato è quello riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Senza disciplinare altro, era la giurisprudenza ad integrare le lacune legislative sulla scorta delle sentenze della Corte di Strasburgo, indicando alcuni parametri: innanzi tutto la durata consona di ogni grado di giudizio, ovvero per il primo grado 3 anni, per il secondo 2 anni, per il terzo 1 anno. Quindi la forbice entro la quale liquidare gli indennizzi variabile da 500,00 € a 1500,00 € per ogni anno eccedente la ragionevole durata.
Premesso che, parimenti alla legge in questione, il legislatore italiano avrebbe dovuto attivarsi per velocizzare i processi  ma che non è mai riuscito nell’intento, a seguito di una sempre maggiore mole di ricorsi ai sensi della legge Pinto il legislatore comprese subito di aver aperto la strada ad una pericoloso fronte per le esangui casse statali, impegnando oltremodo la giustizia delle Corti di Appello.
E’ da questa preoccupazione che nacque e prese forma l’esigenza di un nuovo intervento effettuato con il decreto legge n. 201 del 2002, teso ad introdurre una “pregiudiziale conciliativa” nell’originario meccanismo della suddetta legge.
Il decreto Legge n. 201 del 2002 introdusse, anche se per poco tempo, nel tessuto originario della legge Pinto una conciliazione stragiudiziale in cui gli unici protagonisti divenivano l’Avvocatura dello Stato e l’interessato danneggiato dall’eccessiva durata del processo.
Il nuovo articolo 2 bis subordinava la domanda di un’equa riparazione del danno al fatto che fossero decorsi 90 giorni da quello della comunicazione della volontà di introdurre l’azione da parte del futuro ricorrente, diretta all’Avvocatura dello Stato. Al termine del suddetto incontro o le parti raggiungevano un accordo, sottoscrivendo il relativo atto di transazione, oppure non pervenivano ad un’intesa con l’ovvia conseguenza che l’interessato poteva così finalmente procedere all’azione per un’equa riparazione del danno.
Durante questa fase conciliativa il legislatore non aveva però previsto per il ricorrente l’assistenza di un difensore (necessario per affrontare e risolvere i diversi balzelli di questa fase introduttiva) che rimaneva, eventualmente, a carico esclusivo della parte. Il Decreto Legge 201 del 2002, inoltre, si occupava anche del regolamento delle spese della fase contenziosa giungendo ad autorizzare, nelle ipotesi più nefaste, l’eventuale deroga al criterio della soccombenza nel caso in cui una parte non avesse motivato il rifiuto di aderire alla proposta formulata in sede precontenziosa creando un incentivo psicologico e materiale ad accettare la proposta dell’Avvocatura.
Tuttavia, come spesso accade alle riforme introdotte per decreto legge, in sede di conversione il legislatore con la Legge n 259 del 2002, decideva di sopprimere il capo I del Decreto legge n. 201 del 2002 disciplinante la suddetta condizione di procedibilità, determinando l’eliminazione del “neo-obbligo” di esperire preventivamente il discusso tentativo di conciliazione.
Come prevedibile quindi, stante l’inefficienza della macchina della giustizia, si verificò una richiesta sempre maggiore di indennizzi che portò ad un lento ma inesorabile ritardo della loro liquidazione per mancanza di fondi, sicché al ritardo relativo ai tempi processuali si aggiunse il ritardo relativo ai tempi della liquidazione dell’indennizzo. Ritardi su ritardi!
La situazione creatasi però, lungi dal costituire un disincentivo per i cittadini danneggiati, ne aumentava l’aggressività concretizzantesi nell’attuazione delle procedure esecutive nei confronti dello Stato e/o delle amministrazioni  e dei ministeri.
Gli indennizzi e le aggiuntive spese per le esecuzioni rappresentavano un onere troppo grande per l’inefficiente Stato Italiano ed è per questo che con varie leggi venne assicurata l’impignorabilità dei fondi destinati alla giustizia.
A bloccare il credito del cittadino vi era anche un sistema di verifiche in base a cui  “…le amministrazioni pubbliche, prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore e diecimila euro, verificano, anche in via telematica, se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento …e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo”
Ecco quindi che con tali leggi di dubbia legittimità costituzionale, si precludeva la soddisfazione del credito dei cittadini doppiamente lesi dallo Stato nel loro diritto all’equo processo.

La prossima settimana vedremo come il Governo Monti, con il D.L n. 83 del 22 giugno 2012,

ha inteso riformare tale situazione…

La “trappola” dell’INPS

inps

Può bastare l’incasso di un assegno a configurare l’accettazione di un’eredità e con essa tutti i debiti che ne conseguono?

E’ la tesi sostenuta dall’INPS che nel 2006 erogava a favore di un nostro assistito in qualità di erede un assegno bancario a lui nominativamente intestato e non trasferibile relativo ad alcuni ratei pensionistici non riscossi dalla madre deceduta due anni prima (una somma pari ad € 639,33).

La donna risultava però debitrice nei confronti dell’Istituto di Previdenza Sociale di una somma pari a € 14.434,59.

Con la riscossione dell’assegno suddetto, secondo l’INPS, sarebbe inequivocabilmente avvenuta anche l’accettazione dell’eredità e, a seguito di tal fatto, nel settembre 2009 l’Istituto di Previdenza notificava al nostro assistito due decreti ingiuntivi già dichiarati esecutivi e già azionati inutilmente nei confronti della de cuius.

Pochi mesi dopo, stante l’inerzia del soggetto nell’estinguere il debito, l’INPS notificava allo stesso un atto di precetto per la somma complessiva di € 14.434,59, oltre interessi di legge, spese di notifica e competenze successive fino al saldo.

Contro tali misure la nostra difesa proponeva ricorso in opposizione al precetto ex art.615 co. 1 cpc presso il Tribunale del Lavoro di Ascoli Piceno, deducendo che :

  1. nel marzo 2006 il nostro assistito aveva già rinunciato formalmente all’eredità della defunta perché gravata da debiti, con dichiarazione ricevuta dal cancelliere presso il competente Tribunale;

  2. l’assegno dell’INPS fu spedito successivamente alla rinuncia e non era intestato alla de cuius, né tantomeno recava una dicitura del genere: “erede sig.ra….” in modo tale da far presumere che solo l’erede che avesse accettato l’eredità avrebbe potuto portarlo all’incasso;

  3. per aversi accettazione dell’eredità è necessaria l’esistenza (Cass. 11.03.1988 n. 2403; Cass. 11.05.2009 n. 10796) di una chiara ed inequivocabile volontà di accettare l’eredità;

  4. l’assegno recava invece il nome e cognome del nostro assistito e quindi il suo incasso non presupponeva affatto volontà di accettare l’eredità ma solo quello di intascare l’assegno;

  5. l’INPS avrebbe potuto solo richiedere indietro la somma intascata dal nostro assistito, perché frutto di un pagamento indebito;

  6. non è possibile dare revoca tacita di una rinuncia formale (cass. 4846/03).

Il Tribunale di Ascoli Piceno con sentenza 401/2012, dando ragione a questa difesa, motivava che il ricorrente aveva già rinunziato all’eredità con atto ricevuto dalla cancelleria del Tribunale competente e quindi non poteva essere opposta dall’INPS l’esistenza di una revoca tacita della rinuncia per inammissibilità della stessa.

Il Tribunale adito accoglieva quindi il nostro ricorso, annullando l’esecuzione e tutti gli atti esecutivi oggetto dell’opposizione e dichiarando l’infondatezza della pretesa dell’INPS, con condanna della stessa a rifondere le spese di giudizio.

Non salda il conto dell’albergo: truffa o illecito civile?

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Può configurarsi il reato di truffa (ex art. 640 c.p.) nella condotta di colui che, prenotando una prima volta per un ospite una camera d’albergo e saldandone il conto, prenota ancora con le stesse modalità la stessa stanza rifiutandosi però questa volta di pagare?

Nello specifico, nel dibattimento svoltosi presso il Tribunale di Fermo e conclusosi lo scorso Febbraio, si andava a giudicare il comportamento di un nostro assistito che secondo l’accusa si sarebbe macchiato del reato di truffa.

Tale reato si sarebbe concretizzato nel chiedere, ricevere e pagare regolarmente un primo soggiorno a favore di un terzo soggetto e quindi, sfruttando l’affidamento contrattuale creatosi grazie al regolare svolgimento della prima fase dei rapporti, nel chiedere qualche mese dopo ed ottenere la disponibilità di una camera per un secondo soggiorno senza però questa volta corrisponderne il conto al termine del rapporto.

La Procura di Fermo, nell’arringa finale aveva richiesto una condanna di mesi 4 di reclusione e € 100,00 di multa, mentre la difesa da noi esercitata ha chiesto l’assoluzione con formula piena sul presupposto che il fatto integrasse gli estremi di un mero illecito civile.

Punto di partenza nella nostra tesi difensiva è stato l’assunto che era sicuramente difficile ipotizzare che l’agire dell’imputato fosse preordinato al successivo inadempimento, giacché non può escludersi che esso fosse dipeso da contingenti e sopravvenute difficoltà solutorie.

Ma il punto centrale della questione riguarda la mancanza del requisito costitutivo della truffa ovvero l’artifizio o il raggiro ai fini del perfezionamento della volontà negoziale e cioè nella fase di formazione del consenso. Non ha infatti rilievo in sede penale (in quanto costituente un post factum) qualsivoglia scorrettezza comportamentale successiva alla fase di formazione del consenso negoziale.

Nel specifico, secondo la sentenza emessa dal Tribunale di Fermo, sì è in presenza di un inadempimento civilistico,perché nella fase negoziale non si intravedono quegli artifici o raggiri che devono consistere in una falsa rappresentazione della realtà in modo da condizionare l’iter formativo della volontà negoziale.

Quindi nella fattispecie non si è trattato di un illecito penale, bensì di un illecito civile azionabile nella competente sede.

L’imputato è stato quindi assolto dal Tribunale di Fermo (sent. 87/ 2013) ai sensi dell’art. 530 c.p.p. perché il fatto non sussiste.

 

Lo Studio

Lo Studio Legale Del Vivo, nella nuova centralissima sede di Porto Sant’Elpidio, offre dal 1982 consulenza ed assistenza legale nelle questioni di diritto civile e penale in campo giudiziario e stragiudiziario.

Nel tempo lo studio si è specializzato in particolar modo nelle attività difensive legate alla tutela delle aziende e del recupero crediti, curando tutte le fasi dell’iter procedurale.

Lo Studio opera direttamente e svolge attività di domiciliazione presso gli uffici giudiziari del distretto della Corte di Apppello delle Marche e principalmente presso la Corte di Appello di Ancona e i tribunali circondariali di Fermo, Macerata, Ascoli Piceno, Ancona e loro sedi distaccate (Civitanova Marche, Camerino, Sant’Elpidio a Mare, San Benedetto del Tronto, Osimo, Jesi).

Fra i primi studi delle Marche a servirsi di supporti informatici per la velocizzazione dell’iter legale, è dotato dei servizi di visure camerali e ipocatastali on line, Cassazione on line, collegamento diretto al sistema Polisweb con accesso informatico alle varie Cancellerie dei Tribunali Italiani.

Da sempre interpretando la professione forense come un servizio in favore delle persone, gli avvocati dello Studio sono iscritti nell’elenco dei difensori per il gratuito patrocinio a spese dello Stato presso il Tribunale di Fermo.

Notevole impegno è profuso nell’aggiornamento professionale mediante la costante frequenza a corsi e convegni e l’utilizzo delle più prestigiose riviste giuridiche.

 

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