Locazioni immobiliari – emergenza COVID19 – incidenza dei vari decreti di chiusura delle attività sui contratti in essere. Problematiche relative al pagamento dei canoni di locazione.

L’emergenza in atto e i conseguenti provvedimenti adottati dal Governo al fine di contrastare e contenere il diffondersi del virus Covid-19 (in particolare, il D.P.C.M. 11 marzo 2020 e, in modo ancor più incisivo, il D.P.C.M. 22 marzo 2020), incidono sui rapporti locatizi.

In particolare la chiusura degli esercizi commerciali e la sospensione delle attività produttive, ad eccezione di quelle espressamente previste dalla normativa (Cfr. D.P.C.M. 22 marzo 2020), hanno generato il dubbio sulla possibilità di chiedere con possibilità di successo, la sospensione o in subordine la riduzione dei canoni nei contratti di locazione di immobili ad uso commerciale non utilizzati (o, meglio, non pienamente goduti, in ragione dell’obbligo di chiusura).

In questo articolo si approfondirà la normativa applicabile alla fattispecie in esame e la conseguente tutela giuridica da invocare a favore del conduttore.

Assumendo che il conduttore in questa fase interlocutoria non abbia interesse a sciogliere il rapporto contrattuale e riconsegnare l’immobile al locatore, non saranno approfonditi, se non en passant, gli istituti giuridici della causa in concreto e della presupposizione che in pratica si declinerebbero nella risoluzione del contratto o nel recesso unilaterale della parte per la quale il vincolo contrattuale sia divenuto intollerabile e non più utile.

Il recesso per giusta causa

Nell’ipotesi in cui tuttavia si volesse o dovesse sciogliere il vincolo contrattuale, il conduttore potrebbe recedere dal contratto di locazione invocando i gravi motivi ai sensi dell’articolo 27 della Legge 392/1978, comunque dando al locatore il preavviso di sei mesi.

I gravi motivi che legittimano il recesso, da specificare nella comunicazione, devono essere estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili al momento della sottoscrizione del contratto di locazione e sopravvenuti e, in concreto, rendere estremamente gravosa la prosecuzione del rapporto. In sostanza, i gravi motivi devono avere carattere oggettivo. Sul punto, in materia di locazione non abitativa, esiste giurisprudenza anche recente che conforterebbe la possibilità di invocare i gravi motivi che legittimano il recesso anche nell’attuale situazione di emergenza sanitaria, tenuto conto dei provvedimenti di contenimento adottati e delle loro drammatiche conseguenze per molte attività commerciali (Corte di Cassazione, Terza Sezione, Sentenza n. 23639/2019 che ha considerato legittimo motivo di recesso la “gravità della crisi economica determinatasi in relazione alla collocazione geografica dell’attività commerciale svolta all’interno dell’immobile locato”).

Risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta

L’eccessiva onerosità sopravvenuta si realizza invece nel caso in cui un evento, straordinario e imprevedibile, estraneo alla normale alea del contratto, rende l’esecuzione della prestazione non impossibile, ma più onerosa rispetto a quanto prevedibile prima del verificarsi dell’evento stesso.

Per i contratti a prestazioni corrispettive, l’istituto in esame è disciplinato dall’articolo 1467 Codice Civile, che contempla la possibilità per la parte obbligata, per la quale l’adempimento diventi eccessivamente gravoso, di domandare la risoluzione del contratto. La controparte contrattuale può evitare la risoluzione proponendo di modificare le condizioni dell’accordo (intervenendo sulla propria prestazione o su quella di controparte), in modo da ristabilire l’equilibrio del rapporto. Di norma il locatore potrebbe proporre una riduzione del canone.

Il ricorrere della eccessiva onerosità sopravvenuta richiede la prova del fatto che l’evento sopravvenuto ha “determinato una sostanziale alterazione delle condizioni del negozio originariamente convenuto tra le parti e della riconducibilità di tale alterazione a circostanze assolutamente imprevedibili (Trib. Milano, Sezione Spec. Imprese, Sentenza 3 luglio 2014, n. 8878).

E’ pertanto necessario che sussista una eccessiva onerosità oggettiva della prestazione originariamente convenuta, non è invece sufficiente la mera difficoltà economica (soggettiva dunque) della parte tenuta all’adempimento.

Certamente potrebbe incidere oggettivamente sull’equilibrio sinallagmatico inizialmente convenuto la situazione di recessione economica generale causata dalla pandemia, i mancati introiti conseguenti alla chiusura delle attività, la difficoltà di ripresa anche dopo la riapertura stanti i necessari accorgimenti da attuare che renderanno più complicato anche in termini economici lo svolgimento delle attività produttive e commerciali.

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La questione principale

Passando alla questione principale oggetto di questa disamina, veniamo ad esaminare se il conduttore di un immobile ad uso commerciale sia legittimato nel ritardo nel pagamento dei canoni e/o se possa richiedere la riduzione del canone di locazione o se addirittura possa pretendere di non pagare i canoni relativamente al periodo di chiusura.

La tesi sostenuta da certa dottrina a fondamento della legittimazione a chiedere la riduzione del canone di locazione e/o la liberazione dal pagamento degli stessi, invoca l’art. 1463 C.C. che recita:“Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito” e/o l’art. 1464 C.C. rubricato “Impossibilità parziale” a mente del quale ” quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale”.

L’argomento della sopravvenuta impossibilità della prestazione e la normativa ad asso afferente, applicata alle obbligazioni del conduttore e del locatore, viene letta nel senso che la prestazione del locatore di mantenere la cosa locata all’uso convenuto (esercizio delle attività del conduttore) diventerebbe parzialmente impossibile in quanto pur rimanendo l’immobile nella disponibilità del conduttore, quest’ultimo non potrebbe servirsene.

Viene quindi ritenuto violato l’obbligo del locatore di consegnare e mantenere il bene in condizione da essere utilizzato secondo l’uso contrattualmente stabilito nonché di garantirne il pacifico godimento ai sensi dell’art. 1575 c.c..

Si evoca a tal fine Cas. civile sez. III, 29/03/2019, n. 8766 secondo cui “in tema di risoluzione del contratto, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione è configurabile qualora siano divenuti impossibili l’adempimento della prestazione da parte del debitore o l’utilizzazione della stessa ad opera della controparte, purché tale impossibilità non sia imputabile al creditore ed il suo interesse a ricevere la prestazione medesima sia venuto meno, dovendosi in tal caso prendere atto che non può più essere conseguita la finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto, con la conseguente estinzione dell’obbligazione.”

La Suprema Corte fa leva sulla valorizzazione, ai fini della qualificazione dell’impossibilità sopravvenuta, della causa del contratto, intesa (secondo un orientamento consolidatosi in tempi recenti) come “causa in concreto” ovvero lo scopo pratico del contratto costituente sintesi degli interessi che il negozio è concretamente diretto a realizzare.

Vedasi in particolare Cass. n. 16315/2007 in cui il Giudice di legittimità con riguardo al concetto di “causa in concreto” ritengono che tale elemento sia necessario per l’esistenza del contratto e tale da determinare “l’essenzialità delle attività strumentali alla realizzazione del preminente scopo del contratto”; la causa in concreto ha decisiva rilevanza anche in ordine alla sorte della vicenda contrattuale, in ragione di eventi sopravvenuti che si ripercuotono sullo svolgimento del rapporto. Qualora si verifichino fatti tali da incidere negativamente sull’interesse del creditore al punto da eliminarlo, a parere della Cassazione, si determina “l’estinzione del rapporto obbligatorio, in ragione del sopravvenuto difetto dell’elemento funzionale (art. 1174 c.c.).

Con particolare riferimento al contratto d’affitto d’azienda, c’è chi sostiene che l’interesse di fatto del creditore/affittuario sia evidentemente quello di poter svolgere l’attività per la quale ha stipulato il contratto d’affitto d’azienda. E l’impossibilità di svolgere tale attività, per fatti indipendenti ed estrinseci alle parti, comporta inevitabilmente l’estinzione della controprestazione del locatore in quanto detta obbligazione (cioè il mettere a disposizione l’azienda), anche se astrattamente ancora eseguibile, è del tutto inutilizzabile per il creditore affittuario che non ha più alcun interesse al riguardo. A ciò consegue che l’affittuario non potrà essere chiamato ad adempiere al suo obbligo di pagamento del canone stante la mancanza del necessario sinallagma. Da ciò deriva una legittima sospensione (intesta come estinzione della relativa obbligazione) del pagamento dei canoni di affitto per tutto il tempo in cui saranno in vigore le limitazioni di cui alla decretazione d’urgenza, oltre al diritto di reclamare il rimborso della parte di canone non goduto.

Differenza tra affitto di azienda e locazione di immobile

Senonchè la locazione dell’immobile ad uso commerciale si differenzia dall’affitto dell’azienda per il diverso oggetto del contratto: da una parte l’immobile dall’altra il complesso dei beni per il conseguimento del fine produttivo: “La differenza tra locazione di immobile con pertinenze e affitto d’azienda consiste nel fatto che nella prima ipotesi l’immobile concesso in godimento viene considerato specificamente, nell’economia del contratto, come l’oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente e assorbente rispetto agli altri elementi, i quali (siano essi legati materialmente o meno all’immobile) assumono carattere di accessorietà e rimangono collegati all’immobile funzionalmente, in posizione di subordinazione e coordinazione. Nell’affitto d’azienda, invece, l’immobile non viene considerato nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso di beni mobili e immobili, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo, sicché l’oggetto del contratto è costituito dall’anzidetto complesso unitario.” Cass. civ., Sez. III, 27 giugno 2002, n. 9354

Se quindi nei contratti di affitto di ramo d’azienda, provvedimenti che neghino la possibilità di svolgere tale attività aziendale incidono direttamente, rendendola di fatto impossibile, sulla prestazione principale dell’affittante, consistente nella messa a disposizione di un complesso di beni e rapporti giuridici organizzati per lo svolgimento di un’attività d’impresa e quindi fanno venir meno l’utilità funzionale che costituisce il cuore della prestazione contrattuale dell’affittante che diviene, per l’effetto, pacificamente impossibile, di contro, nella locazione commerciale, i divieti non incidono sulla prestazione e/o obbligazione principale del locatore che ai sensi dell’art. 1575 c.c. permane adempiuta, ovvero la messa a disposizione di locali genericamente idonei all’uso che ne è consentito ai sensi del contratto. Essi non hanno infatti alcuna attinenza all’immobile in cui si svolge l’attività, alle sue caratteristiche o alla sua idoneità all’uso pattuito o anche al pacifico godimento. Pare evidente che incidano, piuttosto, direttamente od indirettamente sull’attività stessa del conduttore in modo del tutto indipendente dalla prestazione del locatore e dall’immobile in cui si svolge l’attività.

Quindi se gli istituti relativi all’impossibilità sopravvenuta totale e/o parziale incidono nel caso della chiusure imposte dal governo direttamente sul contratto di affitto di azienda perché ne pregiudicano e/o impediscono il fine, gli stessi argomenti non potrebbero sostenersi per il contratto di locazione ad uso commerciale.

Occorre infatti considerare che l’immobile locato, sebbene non accessibile al pubblico, permane nell’esclusiva disponibilità del conduttore, che ivi custodisce beni e mezzi di produzione e che i divieti di esercizio delle attività produttive e commerciali imposti dai provvedimenti governativi non incidono in alcun modo sulla prestazione principale del locatore, che consiste nel mettere a disposizione del conduttore locali idonei all’esercizio dell’attività a fronte del pagamento dei canoni, che nel rapporto sinallagmatico locatore-conduttore, il conduttore non è comunque legittimato a ridurre o autosospendere.

Si veda, tra le altre, Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, Sentenza 27 settembre 2016, n. 18987 “nell’ordinamento, come definitivamente chiarito da tempo da questa corte, non è rinvenibile un potere di autotutela del credito da parte del conduttore che, a fronte dell’inadempimento del locatore, decida di non corrispondere i canoni dovuti. In altri termini, al conduttore non è consentito di astenersi dal versare il canone, ovvero di ridurlo unilateralmente, nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione nel godimento del bene, e ciò anche quando si assume che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore. La sospensione totale o parziale dell’adempimento dell’obbligazione del conduttore è, difatti, legittima soltanto qualora venga completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore, costituendo altrimenti un’alterazione del sinallagma contrattuale che determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti (cfr. anche Cass. sez. VI, 26/01/2015, n. 1317)

Del pari non è affatto scontato che, in termini di rigorosa causalità, la chiusura temporanea dell’attività (e a maggior ragione l’incidenza indiretta, per le attività non sospese, sulla sua redditività) renda radicalmente impossibile la prestazione principale del conduttore consistente nel pagamento del canone di locazione e delle spese accessorie. E’ bene infatti ricordare che non è impossibile la prestazione che possa essere adempiuta con la normale diligenza e che, in sede di giudizio, potrebbe non essere ritenuta giustificazione sufficiente la mancanza (o, peggio ancora, la mera riduzione) di ricavi limitata (come speriamo) a qualche settimana.

Poiché, nel caso della locazione, la prestazione del cui adempimento si discute è senz’altro quella di pagamento del canone, giova ricordare che la Corte di Cassazione ha più volte ribadito che l’obbligazione pecuniaria è sempre oggettivamente possibile, potendosi configurare solo una impotenza economica del singolo debitore: l’impossibilità dell’obbligazione di pagamento ha dunque, per la Cassazione, carattere soggettivo e non oggettivo (tra le tante, Corte di Cassazione, Sezione Seconda Civile, Sentenza 15 novembre 2013, n. 25777 “In materia di obbligazioni pecuniarie, l’impossibilità della prestazione deve consistere, ai fini dell’esonero da responsabilità del debitore, non in una mera difficoltà, ma in un impedimento obiettivo ed assoluto che non possa essere rimosso, non potendosi ravvisare nella mera impotenza economica derivante dall’inadempimento di un terzo nell’ambito di un diverso rapporto”).

Sotto altro profilo, e cioè nell’ottica del legislatore, il Decreto Cura Italia (decreto legge 18/2020), all’articolo 65, riconoscendo un credito d’imposta per l’anno 2020 pari al 60% del canone di locazione relativo al mese di marzo 2020 per l’affitto degli immobili rientranti nella categoria catastale C/1 (botteghe e negozi) – ma penalizzando di fatto le altre categorie di attività su cui gravano i costi della locazione – presuppone che non sia legislativamente previsto alcun diritto alla sospensione o riduzione del canone da parte del conduttore, che va quindi pagato.

Riflessi della situazione emergenziale sulle locazioni ad uso abitativo

Quanto sopra detto per la locazione di locali commerciali vale, a maggior ragione, per le locazioni di immobili a uso abitativo: la sospensione delle attività lavorative e didattiche incide in maniera ancor più indiretta sul godimento da parte del conduttore del bene immobile locato. Nemmeno in questo caso sussiste un inadempimento del locatore che giustificherebbe la sospensione del pagamento dei canoni di locazione.

In caso di allontanamento volontario del conduttore dall’immobile locato i provvedimenti restrittivi adottati per il contrasto e il contenimento dell’emergenza epidemiologica rilevano per un diverso aspetto: ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lett. b), del D.P.C.M. 22 marzo 2020 chi si è recato presso un’abitazione propria o di terzi in zone meno contagiate del Paese, dal 23 marzo 2020 è impossibilitato a far ritorno nell’immobile locato in città e zone con un più alto tasso di contagiati, se non per le specifiche le ragioni giustificative tassativamente individuate dal provvedimento stesso: comprovate esigenze di lavoro, assoluta urgenza e motivi di salute.

Anche in questo caso, pertanto, pur avendo a propria disposizione l’immobile dal punto di vista giuridico, il conduttore è fortemente limitato nel potere di goderne effettivamente. Nemmeno in questo caso la situazione dà luogo, dal punto di vista giuridico, a impossibilità sopravvenuta di pagare il canone di locazione né a eccessiva onerosità.

In mancanza di situazioni che rendano la prestazione impossibile, totalmente o parzialmente, il debitore è senz’altro tenuto all’esatto adempimento dell’obbligazione contrattuale (articolo 1218 Codice Civile), esponendosi, in caso contrario, alla legittima richiesta di risarcimento dei danni subiti dalla controparte (articolo 1223 Codice Civile).

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Il ritardo nel pagamento del canone di locazione in relazione all’art. 91 decreto legge 18/2020.

A seguito del provvedimento di chiusura delle attività commerciali di cui al Dpcm dell’11 marzo 2020, sembrerebbe applicabile la disposizione relativa alla cosiddetta impossibilità temporanea di adempiere alla propria obbligazione di cui all’art. 1256 cc. “l’obbligazione si estingue quando, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile” e, se l’impossibilità di eseguire la prestazione è solo temporanea, “il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento”.

Va considerato, infatti, che il temporaneo divieto di esercitare l’attività determina oggettivamente la mancanza degli incassi e quindi la temporanea impossibilità di adempiere alla propria obbligazione (pagamento del canone). Ciò per il tempo per il quale durerà l’emergenza sanitaria. Pertanto, in applicazione della disposizione, il conduttore non sarebbe responsabile del ritardo nell’adempimento.

Ad avvalorare questa impostazione va richiamata la disposizione in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali a causa del Covid-19, contenuta all’articolo 91 del già citato decreto legge, che sancisce il principio in forza del quale, per valutare se sussiste la responsabilità dell’obbligato in relazione all’inadempimento o al ritardo dell’inadempimento e al conseguente obbligo di risarcire il danno, deve essere considerato l’impatto sull’attività dell’obbligato stesso delle misure di contenimento.

Se ne deduce che il conduttore impossibilitato ad adempiere correttamente alle scadenze di pagamento dei canoni a causa dell’emergenza Covid–19, poichè direttamente interessato dai provvedimenti di chiusura della propria attività, può ritenersi giustificato, senza che ciò costituisca presupposto per la decadenza del contratto o l’applicazione di interessi moratori e quindi senza incorrere nelle conseguenze previste per il ritardo nell’adempimento dell’obbligazione.

Si tratta tuttavia di una posticipazione dell’obbligo e non di una sua estinzione. Dal momento in cui l’emergenza in atto e dunque impossibilità temporanea sarà cessata, il conduttore sarà tenuto al pagamento dei canoni precedenti non corrisposti.

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Conclusioni

A conclusione di questo excursus, una chiosa di buon senso sembra tuttavia potersi enunciare, richiamando l’art. 2 della Costituzione, che pone a carico dei consociati un generale obbligo di solidarietà, anche “economica”, e, con esso, le norme del codice civile, che nell’obbligare le parti a comportarsi con correttezza (art. 1175) e buona fede, anche nella fase esecutiva del contratto (art. 1375), impongono alle stesse di calibrare le rispettive aspettative e pretese contestualizzandole, in particolare, nell’inedito scenario che stiamo vivendo in questi giorni.

Ove si consideri, che il contratto di locazione ad uso commerciale si configura quale contratto di durata, appare plausibile e ragionevole ritenere che il normale rapporto debba entrare in quiescenza, fintando che permarranno condizioni di difficoltà generali e quindi nell’impossibilità che esplichi la propria normale funzione economico-sociale, per riprendere a “funzionare” regolarmente non appena si saranno ristabilite le condizioni di normalità sociale ed economica.

Una logica costituzionalmente orientata e ispirata e alla solidarietà, all’equità, alla buona fede dunque, dovrebbe indurre a ritenere corretta una condivisione tra le parti del costo del danno conseguente alla chiusura e al successivo lento periodo di ripresa a pieno regime delle attività.

Le parti si troverebbero a condividere nella misura e nella proporzione che stabiliranno a seguito di accordi, gli effetti di una situazione che non è imputabile a nessuna di esse, in un contesto nel quale, così facendo, ciascuna massimizzerebbe l’utilità (o la riduzione del danno) rispetto all’alternativa della risoluzione del rapporto.

Il locatore deve considerare che, qualora il rapporto dovesse venir meno, in pendenza della situazione emergenziale, si troverebbe nella situazione di disporre di un bene inidoneo a produrre utilità e comunque di difficile ricollocazione.

Da parte del conduttore, questa soluzione avrebbe il pregio di contingentare ragionevolmente la perdita derivante dall’obbligo di versare il corrispettivo contrattuale, pur mantenendo in vita il rapporto che egli ha interesse possa proseguire fino alla naturale scadenza, fermo restando che, se la situazione dovesse protrarsi oltre le attuali aspettative e lo stato di fatto non dovesse mutare, a fronte di prospettive di crisi irreversibile, potrebbe profilarsi l’ipotesi di esercitare un legittimo recesso determinato dall’impossibilità sopravvenuta della prestazione.

In fine, sarebbe auspicabile un intervento del legislatore per stabilire normativamente, se e quali debbano essere i parametri di riduzione dei canoni di locazione commerciale, durante l’epidemia, altro non fosse per evitare il contenzioso che, in difetto, molto probabilmente si andrà ad ingenerare.

Altrettanto auspicabile, poi, sarebbe un ulteriore intervento che incentivi gli accordi bonari, semplificandone ed incoraggiandone l’adozione, anche sotto il profilo fiscale e degli adempimenti connessi.

 

La violazione dei termini di notifica del ricorso: l’improcedibilità nel rito del lavoro

Quello della «durata ragionevole del processo» è uno dei più rilevanti principi processuali presenti nella nostra Carta costituzionale. Tale principio ha trovato una prima affermazione nell’ordinamento italiano con la ratifica della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali(Legge 4 agosto 1955 n. 848), che lo consacra nell’art. 6, § 1 («ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti»), ma è assurto ad esplicita affermazione in Costituzione con la Legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 2, che lo ha espressamente inserito nell’art. 111. Conseguenza concreta della modifica dell’art.111 è sicuramente quella attinente all’improcedibilità nel rito del lavoro a seguito della sentenza di Cass Sez Un. 20604/2008.

Esempio pratico di questo mutato orientamento, è il caso che ci si è venuto a presentare e che andremo di seguito ad esporre.

A seguito di un ricorso per decreto ingiuntivo in materia locatizia da noi presentato per mancato pagamento di canoni di locazione, l’intimato si opponeva con ricorso depositato nei termini di legge, ma notificava il ricorso ed il pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di discussione oltre il termine termine perentorio di cui all’art. 415 co. V cpc portando alla notifica gli atti entro 30 gg dal giorno dell’udienza di discussione.

Ai sensi della nuova giurisprudenza di legittimità e di merito (a partire da Cass. SS UU 20604/2008) costituzionalmente orientata alla nuova formulazione dell’art. 111 co II cost. relativa alla giusta durata del processo, qualora la notifica del ricorso e del decreto di fissazione (nel rito del lavoro) non venga effettuato entro il termine di cui al terzo comma dell’art. 435 cpc per il ricorso in appello o entro il termine di cui al co. V dell’art. 415 cpc per il ricorso nel giudizio di primo grado esso diviene improcedibile (Corte costituzionale Ord. 60/2010).

Esiste tuttavia una giurisprudenza di merito più severa che ritiene, sulla scorta dell’interpretazione di un obiter dictum della sentenza di Cass Sez Un. 20604/2008 che qualora la notifica avvenga dopo il termine di 10 gg. di cui all’art. 435 co. II Cpc o all’art. 415 co. IV cpc, in difetto di proroga accordata dal giudice prima della scadenza, devono determinarsi conseguenze analoghe a quelle ricollegabili alla violazione del termine perentorio ovverosia l’improcedibilità del ricorso. (App. Roma Sent. 4668/2010, 2491/2010 e 2543/2010).

Nel caso si tratti di opposizione a decreto ingiuntivo o di impugnazione di una sentenza nel rito del lavoro o locatizio, la violazione dei termini in esame comporterebbe l’impossibilità di riproporre il ricorso per scadenza dei termini con conseguente esecutorietà della sentenza impugnata o del decreto ingiuntivo opposto.

Nel caso che ci occupa, questa difesa aveva azionato un decreto ingiuntivo nei confronti del locatario (Vodafone) il quale si opponeva nelle forme del rito locatizio (cioè lo stesso del rito del lavoro) notificando però il ricorso in violazione dei termini di cui all’art. 415 co IV e V cpc

Il Tribunale di Fermo con ordinanza 13.05.2013 sul procedimento 244/13 Rg dichiarava l’improcedibilità del ricorso per inosservanza dei termini perentori di cui all’art. 415 co. V cpc con l’implicita conferma del decreto ingiuntivo opposto, sulla scorta della recente giurisprudenza costituzionalmente orientata al nuovo principio della ragionevole durata del processo.

La precedente giurisprudenza – ancora non intrisa dell’esigenza costituzionale di velocizzare la durata del processo – invece si limitava a dichiarare nulla la notifica ed ordinare la rinnovazione della stessa rinviando all’uopo la prima udienza.

In sintesi viene mutato l’orientamento secondo cui il tempestivo deposito del ricorso sia idoneo da solo a perfezionare l’opposizione non incidendo il ritardo della notifica la quale poteva essere sanata con lo spostamento di udienza e l’assegnazione dei termini per una nuova notifica.

Ora invece anche il Tribunale fermano ha recepito l’evoluzione della giurisprudenza nel rito del lavoro per cui oltre ad una valida edictio actionis è necessaria altresì una valida vocatio in ius quale condizione indispensabile per la stabilizzazione degli effetti prodromici e preliminari prodotti dal regolare deposito del ricorso.